di Michele Tosi
Lectio magistralis tenuta nella Biblioteca Zambeccari.
Bologna, liceo Galvani, 25/11/2010
Il Novecento trova un modo di intendere il mosaico teso a ristabilire il ruolo che ebbe in età antica, vòlto a riconferirgli una propria dignità. Il cammino riabilitativo comincia con Klimt, e soprattutto con Gaudì. L’artista austriaco realizzò una serie di cartoni da cui i mosaicisti della Wiener Werkstätte trassero i mosaici per la decorazione della sala da pranzo di palazzo Stoclet (1905-11), realizzato a Bruxelles da Josef Hoffmann.
Il progetto di Klimt nasce da un’approfondita riflessione sui mosaici bizantini di Ravenna e di san Marco, che aveva potuto osservare e studiare direttamente durante un suo viaggio in Italia. I pannelli sono quindi figli di un’ispirazione espressamente musiva. La loro realizzazione è stata attentamente pensata, i cartoni recano una serie di indicazioni per i mosaicisti sulla tecnica e sulla scelta dei materiali.
Gaudì affronta il mosaico operando la propria riflessione linguistica in un altro ambito, quello ceramico di tradizione mozarabica. La sua operazione è ardita: reinventa la tecnica per favorire l’espressione dei caratteri visionari e fantastici della propria vena artistica. Nei suoi lavori (parco Güell, 1900-14; Casa Battló, 1904-06; casa Milà, 1906-10; Sagrada Familia, a partire dal 1883), il mosaico ceramico viene applicato attraverso un taglio irregolare delle piastrelle, poi riassemblate in insiemi di concitato e delirante dinamismo. La tecnica utilizzata da Gaudì prende il nome di trencadìs, e troverà altre splendide applicazioni in territorio catalano, come nel lavoro che orna l’Auditorium di Barcellona (1906-08).
In territorio italiano un’idea nuova del mosaico inizia ad affermarsi fra gli anni Trenta e Quaranta con Funi, Campigli, Casorati, Prampolini, Depero, e soprattutto Sironi e Severini. Sono proprio di Sironi e Severini i principali scritti teorici e le applicazioni più interessanti nella nostra penisola.
Le considerazioni di Sironi e Severini sul mosaico sono comuni: ambedue fanno riferimento a una tradizione antica che poteva essere romana o bizantina a seconda delle applicazioni. Il mosaico per loro è un valore artistico da riaffermare. L’idea è di creare rappresentazioni che glorifichino il fascismo con la loro monumentalità, e che creino un ponte visivo fra passato e presente generando echi del periodo imperiale. Per i mosaici parietali utilizzeranno una tecnica di derivazione bizantina, mentre per quelli pavimentali il riferimento saranno i mosaici romani.
Così nacquero i pavimentali di Severini per il Foro italico a Roma, vere e proprie riletture dei mosaici ostiensi in bianco e nero, o i parietali milanesi di Sironi (La giustizia fra la legge e la forza, 1936, palazzo di Giustizia; L’Italia corporativa, 1936-37, palazzo dell’informazione). Importanti le opere per l’EUR, i due mosaici parietali del ’41 di Prampolini (Le Corporazioni) e di Depero (Le professioni e le arti).
Fra i tanti lavori musivi realizzati in Italia nel periodo fascista è infine da menzionare quello per la piscina dello stadio del nuoto di Albaro, a Genova, progettato da Fillia ed eseguito nel ’35 con mosaico ceramico. Si tratta di una suggestiva stilizzazione figurativo-paesistica di chiara ascendenza tardo-futurista.
Il rapporto di Severini col mosaico proseguirà proficuamente nei decenni successivi alla caduta del regime fascista. L’uso che Severini ne farà in questo periodo è in massima parte legato alla rilettura del mosaico bizantino anche perché, dopo l’esperienza del Foro Italico, opera per lo più in ambito parietale e spesso in strutture religiose.
La scelta della tecnica bizantina è da leggersi anche in rapporto a un approfondimento della dimensione spirituale dell’immagine effettuata dall’artista sotto l’influenza del filosofo cattolico Maritain. Il lavoro di Severini è orientato anche alla diffusione del mosaico attraverso articoli, mostre, l’ideazione di un corso sperimentale creato a Parigi nel 1959, e l’invenzione di un suo nuovo utilizzo: il mosaico da cavalletto.
Severini, riflettendo sugli emblemata romani, sui mosaici portatili cristiani, e sulle possibilità di aprire nuovi spazi economici, decide di realizzare opere musive delle dimensioni dei quadri, e che dei quadri abbiano la funzione di fungere da elemento decorativo di una parete. Applicazione interessante, anche se snatura uno degli aspetti basilari del fare mosaico: l’opera musiva non è più così pelle architettonica, come è quasi sempre stata intesa, elemento connaturato all’architettura, ma pura decorazione. Il mosaico da cavalletto avrà nel tempo grande successo, divenendo uno dei campi privilegiati dai mosaicisti. Soprattutto in questi ultimi tempi, poiché la realizzazione di mosaici monumentali viene per lo più affidata all’industria.
Negli anni ’30 Fontana inserisce il mosaico sulle sue sculture. L’uso del mosaico presente nelle sue opere è vario e favorisce vicendevolmente di incrementare le particolari finalità espressive dell’immagine. Nei suoi Ritratti femminili del ’38-39 utilizza un mosaico di taglio e disposizione regolari, per sottolineare il senso di metafisica astrazione del ritratti, mentre in Testa di Medusa del ’48, dialoga con una forma intrisa di un’inquieta brutalità, esaltandone la violenta matericità con le accensioni luministiche degli ori, contrapposte bruscamente a una parte più sobriamente trattata con materiale lapideo.
Il mosaico da cavalletto è stato nel 1959 al centro della Mostra di mosaici moderni, tenuta presso il museo nazionale di Ravenna. Si trattava di un’esposizione basata su una serie di lavori musivi realizzati dai mosaicisti ravennati, riuniti all’epoca sotto il nome di Gruppo mosaicisti, sulla base di cartoni eseguiti da importanti artisti internazionali.
L’idea fu dell’allora ispettore ai monumenti di Ravenna Giovanni Bovini, che voleva dare maggior forza all’immagine del mosaico ravennate nel mondo. Il progetto sulla carta era splendido; la sua realizzazione, a posteriori, si rivelò però non pienamente riuscita.
Ancora una volta si relegava il mosaicista al ruolo di mero esecutore. Inoltre gli artisti che hanno partecipato hanno creato i proprî cartoni senza riflettere sugli elementi linguistici specifici del mosaico, quindi, spesso, i lavori non risultano essere pienamente riusciti, non certo per carenze esecutive dei mosaicisti, ma per l’inadeguatezza dei progetti rispetto alla traduzione musiva. È il caso dell’opera di Emilio Vedova, il cui lavoro, di una gestualità violenta, era assolutamente inadeguato al logico raffreddamento dell’immediatezza gestuale originaria determinato dalla sua trasposizione a mosaico.
Fra le opere da ricordare in termini positivi il lavoro di Marc Chagall e di Mirko, eseguiti da Antonio Rocchi. Rocchi riesce a rendere la mobilità delle superfici cromatiche di Mirko attraverso un’oculata varietà delle tessere e grazie all’uso di una malta colorata, lasciata a vista, che diviene superficie dialogante con la tessitura musiva.
Una menzione particolare necessita Omaggio a Odoacre di Georges Mathieu, poiché ha voluto vedere, conoscere, ascoltare il mosaico, per realizzarlo; poi, col consiglio dei mosaicisti, ha eseguito lui stesso il lavoro, senza partire da un cartone.
Non riesco a giudicare questo mosaico da un punto di vista estetico o tecnico, perché lo amo, e questo a prescindere dalla sua bellezza. Incarna una passione, manifesta come l’arte sia un ponte fra passato e presente, testimoniando le novità del linguaggio artistico di Mathieu, attraverso la rilettura del mosaico bizantino.
Negli anni recenti il mosaico ha goduto di fortune alterne. Il mosaico tradizionale, architettonico, ha continuato a godere di buona fortuna, diffondendosi anche nell’ambito del design, grazie all’attenzione che gli hanno dato alcuni architetti come Mendini, La Pietra, Novembre, Sottsass jr., Josa Ghini.
Soprattutto Mendini, collaborando in particolare con l’industria musiva, ne ha fatto nell’ultimo ventennio un impiego assiduo e proficuo, applicandolo diffusamente in numerose sue creazioni. Egli lo utilizza talvolta per accentuare il carattere metafisico dei proprî progetti, attraverso un uso della scomposizione cromatica tendente a effetti di evanescenza, di smaterializzazione; in altri casi, invece, l’aspetto musivo sottolinea preziosamente le qualità ludiche di un interno o di un oggetto.
Il lavoro di Ugo La Pietra col mosaico ha una finalità morale, i suoi progetti sono stati realizzati dalle principali scuole di mosaico italiane (Spilimbergo, Ravenna, Monreale), nel desiderio di tutelare e di diffondere l’idea di un alto magistero artigianale. Anch’egli ha collaborato con l’industria, per esempio nel Monumento alla balnearità (1990-92, Cattolica), riconoscendo nell’impiego d’una tessera standardizzata industriale un mezzo utile per aumentare il senso d’astrazione dell’immagine.
Il lavoro forse più interessante in campo architettonico, fra quelli realizzati in tempi recenti, ha visto il mosaico protagonista della revisione di alcune stazioni della metropolitana di Napoli. Qui Mendini ha voluto inserire diversi mosaici per valorizzare alcuni ambienti, con risultati di grande spettacolarità.
Svariati artisti hanno realizzato opere musive decisamente importanti, come Chia, Paladino, Cucchi, Pomodoro, Frigerio, e addirittura Hirst. A partire dagli anni ’80 si è affermata una nuova figura: quella del mosaicista-artista. Il mosaicista diviene, in questo periodo, artista a tutto tondo, non più solo traduttore di progetti di altri autori, opera in proprio. A questo sviluppo ha contribuito anche la creazione di scuole per l’insegnamento del mosaico in cui oltre agli elementi tecnici vengono insegnati agli allievi anche gli aspetti teorici assolutamente necessari alla maturazione di un pensiero artistico autonomo.
Questa figura troverà degni rappresentanti in Italia e non solo. Alcuni dei maggiori artisti del mosaico sono riconoscibili in ambito veneto-friulano (Licata, Zavagno, Candussio, Petris, Menossi, Orsoni), e ravennate (De Luca, Racagni, Bravura, Nittolo, Babini, Strada, Santi, Marzi, Galli, Pivi, Fabbri).
In particolare il ravennate De Luca sembra incarnare nei propri lavori l’idea di un mosaico perfettamente integrato alle logiche della contemporaneità. Osservare le sue opere –mosaici da cavalletto, ma chiaramente pensati per una dimensione architettonica– fa comprendere come il mosaico possa e debba essere considerato a pieno titolo un’arte. Le sue immagini astratte, lavorate con una pelle musiva fatta di variazioni minimali di sottile suggestione luministica, si caricano di valenze metafisiche, proprio in virtù della tecnica impiegata. Il mosaico permette a De Luca di ammaestrare la luce e ci consente di instaurare un silenzioso dialogo con essa, riconducendoci a Bisanzio.