di Michele Tosi

Col termine mosaico s’intende un manufatto -oppure la sua tecnica di esecuzione- realizzato per mezzo della frammentazione e successiva ricomposizione del materiale di cui è costituito, o che comunque sia basato su una logica di discontinuità. Un dipinto, a esempio, presenta una trattazione per lo più unitaria del colore, così una scultura per quanto riguarda lo sviluppo delle superfici; nel mosaico, invece, l’immagine risulta essere atomizzata, scomposta, parcellizzata.

Premessa

In genere il mosaico viene sottovalutato. Non si è abituati a osservarlo con attenzione, come si fa invece per la pittura, per l’architettura o per la scultura. Queste vengono considerate le arti maggiori. Il mosaico è inteso di solito come pura decorazione, o come succedaneo della pittura. Quando s’incontra un’opera musiva il nostro sguardo si fa distratto. Il mosaico è da considerarsi un’arte a pieno titolo, anche se nella sua storia ha vissuto fasi alterne, alcune luminose altre meno felici, di appannamento. Bisogna comprenderlo per quello che veramente è, per capirne la sua assoluta importanza.

Il mosaico nasce con l’architettura. Inizialmente, con i greci e i romani, con aspetti funzionali e decorativi, successivamente, con i cristiani, dell’architettura diventerà parte integrante, non limitandosi più ad abbellirla, ma contribuendo, con il movimento degli elementi strutturali, a definirne gli spazi. Questo credo che debba, ancora oggi, essere il suo ruolo, questo credo che sia l’elemento da tenere presente per progettarne eventuali sviluppi futuri. Il mosaico è come una pelle che ricopre le superfici architettoniche e che dialoga con la struttura dell’edificio. La pelle musiva è l’elemento visibile dell’insieme, essa è in diretto rapporto con la luce, e ne modifica i percorsi, diversificando il nostro modo di percepire la realtà architettonica.

Il modo di disporre le tessere sul piano di malta, i materiali impiegati, il rapporto della superficie musiva con i punti luce, possono generare effetti differenti, di omogeneità o di contrasto, possono suggerirci l’inferno del corpo o la beatitudine dello spirito. Il mosaico è luce incarnata.

Il mosaico greco-romano

Si ritiene generalmente che i primi mosaici risalgano al periodo minoico-miceneo (fra la fine del III ed il II millennio a.C.) e che fossero delle coperture pavimentali di alcuni ambienti degli antichi palazzi. Il tipo di mosaico allora impiegato viene detto a ciottoli. I ciottoli non presentavano, a quell’epoca, particolari varietà cromatiche. Il mosaico si dichiarava qui come una tecnica dalle chiare finalità funzionali, privo di qualsiasi connotazione estetica. Esso veniva utilizzato per impermeabilizzare piani pavimentali e per renderli maggiormente resistenti al calpestio. L’uso del mosaico per ricoprire superfici pavimentali sarà quello più diffuso fino al I secolo a.C. quando, in ambito romano, si inizieranno a produrre anche opere parietali.

Nel corso dell’VIII secolo a.C. iniziano a comparire i primi mosaici a ciottoli con raffigurazioni di tipo geometrico; ne sono un esempio quelli di Gordion, in Asia Minore, dove una ricca serie di semplici figure geometriche appare disposta in modo piuttosto caotico, senza la presenza di un principio strutturale ordinatore. Questo tipo di approccio musivo si diffonde anche in altre aree, come testimoniano i mosaici trovati in Spagna, a La Muela de Càstulo, anch’essi risalenti all’VIII sec. e presentanti marcate somiglianze con i pavimentali di Gordion. Perché il mosaico acquisisca caratteristiche più marcatamente estetiche si deve attendere la seconda metà del IV sec. a.C.

Nel periodo ellenistico (323 a.C.-31 a.C.) si diffonde l’uso di un mosaico a ciottoli che prevede l’impiego di figure, dapprima geometriche, rese però in insiemi più regolari rispetto ai lavori precedenti, poi tratte dalla realtà, ed un progressivo uso del colore. La policromia contribuisce, con l’impiego di aspetti dinamici, e con l’uso di sottolineature chiaroscurali che conferiscono un’impronta di tridimensionalità, ad accentuare il rapporto fra la rappresentazione ed il reale. Questo tipo di mosaico viene realizzato solitamente per decorare l’interno di edifici –pubblici o abitativi– di particolare prestigio. Un esempio, in questo senso, sono i mosaici ritrovati a Pella, in Macedonia, il luogo d’origine di Alessandro Magno dove, tra l’altro, si trovano alcuni pannelli musivi narranti episodi della vita del celebre condottiero su uno dei quali viene riportato –per la prima volta nel caso di un mosaicista– il nome dell’autore: Gnosis.

Pella (Macedonia), particolare della Caccia al leone

La diffusione del mosaico a ciottoli perdurerà fino al I secolo a.C., e si avrà soprattutto fra la Grecia e l’Asia Minore. Numerosi sono i ritrovamenti in questo senso a Corinto, a Sicione, a Eretria, ad Asso, e in particolare a Rodi, dove vengono sviluppate immagini di tema mitologico, come Bellerofonte che trafigge la Chimera. Un mosaico a ciottoli figurativo di grande interesse compare anche in Sicilia, si tratta del fregio con Combattimenti di animali, opera del IV-III secolo d.C. facente parte della decorazione della Casa dei Mosaici, nell’isola di Mozia.

Nel corso del IV secolo si affermerà, sempre in ambito ellenistico, l’impiego di un’altra tecnica musiva: il cosiddetto mosaico a tessere o –per usare la terminologia latina– opus tessellatum. Anche nel caso dell’opus tessellatum le raffigurazioni potevano essere sia geometriche che figurative. Di solito le rappresentazioni figurative, storiche, mitologiche o semplicemente riprese dalla quotidianità –i cosiddetti emblemata–, si trovavano a sottolineare ambienti di particolare rilevanza, per lo più inserite come elementi di rilievo al centro di pavimentali geometrici. Per questi lavori venivano impiegati materiali di grande pregio; spesso le tessere erano realizzate per mezzo del taglio di smalti, di prodotti vetrosi, che conferivano alle superfici suggestivi effetti cromatici per mezzo del gioco di riflessi che animava l’insieme.

Anche per l’opus tessellatum si ricorda il nome di alcuni mosaicisti, come ad esempio Sofilo, il cui nome compare su un mosaico da lui eseguito rappresentante il Ritratto della regina Berenice II (fine del III sec. a.C.), e Sosos, ricordato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, che è stato l’inventore di alcuni di originali modelli musivi, quali le colombe abbeverantisi e la stanza non spazzata, dove viene rappresentato, con straordinario effetto illusorio, un pavimento su cui spiccano gli avanzi di un ricco pasto. Queste due tipologie, variamente interpretate, avranno grande successo e si ritroveranno impiegate anche a secoli di distanza dalla loro creazione, come nel caso delle Colombe abbeverantisi che compaiono, tra l’altro, anche nell’iconografia dei mosaici bizantini, con il celebre esempio di Galla Placidia, a Ravenna (V sec. d.C).

Heraklitos, Asarotos oikos (pavimento non spazzato) | Musei vaticani
Heraklitos, Asarotos Oikos (pavimento non spazzato, copia da Sosos) | Musei vaticani

Il mosaico a tessere si diffonderà in tutto il territorio greco e nei luoghi della Magna Grecia, come ad esempio a Morgantina, in Sicilia, dove abbiamo alcuni tra i primi esempi dell’impiego di tale tecnica in territorio italico. Il suo successo più pieno si avrà però in ambito romano, quando la sua diffusione arriverà a coprire tutta l’Europa e si estenderà fino alle colonie romane presenti nelle regioni africane. A Roma, inizialmente, si affermerà dapprima e soprattutto il mosaico geometrico. La civiltà romana utilizzerà tale genere musivo applicandone le infinite varianti come complemento delle proprie architetture: con esso rivestirà ambienti di ogni dimensione e destinazione, dalle più umili alle più importanti –aule basilicali, edifici termali, ma anche ambienti delle domus, le abitazioni dei patrizi.

La geometria musiva diventa un modo di misurare visivamente lo spazio, di muoverlo e abbellirlo. Il mosaico geometrico romano è sia di tipo policromo –come avviene soprattutto in epoca augustea–, sia bicromo, in bianco e nero. Spesso, come elemento centrale per gli spazi di rappresentanza anche i Romani, come già i Greci, utilizzavano mosaici figurativi di dimensioni variabili. Si tratta dei già citati emblemata. Essi venivano in genere lavorati a parte dai mosaicisti, costruiti in cassette di terracotta o di marmo che poi, una volta terminata l’opera, venivano collocate all’interno del mosaico pavimentale, in uno spazio lasciato appositamente vuoto. Nella trattazione degli emblemata i romani riducono progressivamente l’entità della tessera che assume, alla fine del I secolo a.C., dimensioni infinitesimali. Questo tipo di mosaico, particolarmente apprezzato all’epoca, prende il nome di opus vermiculatum.

L’uso della policromia degli smalti, l’impiego di tessere minime, la loro disposizione, che prevede l’eliminazione degl’interstizi, fa sì che la superficie musiva trattata con questa tecnica, da una certa distanza, risulti all’apparenza unitaria, simile a quella pittorica; tali peculiarità permettono una più sottile modulazione dei toni cromatici, una più morbida definizione plastica della figura, e una maggiore analiticità descrittiva, ma snaturano, a ben guardare, quella che è la specificità del mosaico; in un’opera d’arte, infatti, il risultato visivo dovrebbe essere l’esaltazione delle sue caratteristiche tecnico/costitutive, non il loro occultamento. Qui abbiamo un mosaico che mente a se stesso dichiarandosi come pittura ed è in questo senso che i greci e i romani lo usavano, come surrogato della pittura, impiegato al suo posto per le sue maggiori qualità di resistenza e per i suoi pregi funzionali.

La contiguità tra mosaico e pittura si manifesta anche in uno dei più celebri mosaici dell’antichità, la Battaglia di Isso (II-I sec. a.C.), copia romana di un’opera pittorica ellenistica realizzata da Filosseno d’Eretria, trovato nel peristilio della pompeiana Casa del Fauno.

Battaglia di Alessandro contro Dario | da Pompei, Casa del fauno | Napoli, museo archeologico. Sotto, il particolare di Alessandro

Tra il I ed il II secolo d.C. le raffigurazioni nel mosaico romano si fanno sempre più sintetiche. A questo nuovo desiderio di astrazione corrisponde, da un punto di vista cromatico, un alleggerirsi dei colori che porterà all’uso diffuso del bianco e nero, non solo nel mosaico geometrico ma anche in ambito figurativo. Col mosaico bianco e nero, i cui esempi più noti sono quelli di Ostia antica, ma che si diffonde in tutto il territorio romano, l’immagine si allontana visibilmente dalla realtà, con l’accentuarsi dei caratteri di stilizzazione e di astrazione.

Il colore non verrà comunque mai abbandonato completamente in ambito romano, come testimoniano i mosaici delle colonie romane in Africa e gli stupefacenti mosaici policromi della Villa del Casale a Piazza Armerina (IV-V secolo d.C.), o quello rappresentante Onorio con le guardie del corpo ed il generale Stilicone (secondo altri si tratta invece di Ulisse che scopre Achille presentandogli le armi) (V secolo d.C.), conservato al Museo Civico di Faenza.

Leone, particolare dai mosaici della villa del Casale a Piazza Armerina (320-270 d.C. circa)

Un altro tipo di mosaico che si diffonde soprattutto in territorio romano è il cosiddetto opus sectile, che prevede l’impiego di lastre marmoree opportunamente sagomate e giustapposte in modo da formare l’immagine. La sagomatura dei marmi permette di fare sfoggio di nuovi virtuosismi tecnici; inoltre le pezzature del marmo, maggiori rispetto a quelle presenti nel mosaico a tessere, danno maggiore visibilità al materiale, esaltandone la raffinata preziosità, sottolineandone le variegature e gli splendidi colori. Utilizzato già in epoca repubblicana, l’opus sectile, detto anche tarsia marmorea, avrà la sua diffusione maggiore in ambito imperiale. Tale tecnica è utilizzata sia in forme geometriche che figurative, come nella Testa del Sole proveniente dal Mitreo di Santa Prisca sull’Aventino a Roma (prima metà del III sec. d.C.), o nei lavori provenienti dalla cosiddetta Basilica di Giunio Basso, sull’Esquilino, anch’essa a Roma (prima metà del IV sec. d.C.), dove, oltre ai marmi, si segnala, ad arricchire ulteriormente le raffigurazioni, la presenza di ori, paste vitree, pietre dure, madreperla.

Molto usato era anche l’opus scutulatum, il cui impiego era sempre legato al desiderio di sottolineare la rarità dei materiali scelti; le scutulae, infatti, erano scaglie di marmi di particolare pregio e bellezza, la cui importanza risultava amplificata dal loro inserimento in superfici presentanti altre forme di trattazione.

Esempi di mosaici romani si trovano in tutta la nostra penisola; particolarmente interessanti e numerosi sono quelli che si possono ammirare in Emilia-Romagna. Tra i tanti si ricordano la Scena di porto di Rimini (II d.C), i mosaici in bianco e nero del Museo Archeologico di Parma (II d.C.); il Mosaico di Orfeo della Domus del Chirurgo, sempre a Rimini (II-III sec. d.C.); i pavimentali del Museo Archeologico di Faenza (V sec.), quelli di Meldola (inizi del VI sec. d.C.); infine i lavori della Domus dei Tappeti di Pietra di Via D’Azeglio, a Ravenna (V-VI sec. d.C.), singolare ponte tra l’arte romana e quella più propriamente cristiana, dove compare tra l’altro, nella rappresentazione del cosiddetto Buon Pastore (inizi del V sec. d.C), un modello figurativo che si pone come una delle anticipazioni di quella che sarà l’arte bizantina.

A Roma si diffonde, a partire dal I secolo a.C., anche l’uso del mosaico parietale, o per decorare pareti e soffitti, come ad esempio si riscontra in alcuni edifici presenti sul Colle Palatino a Roma o a Villa Adriana a Tivoli, o come ornamentazione di fontane e ninfei nelle domus. Qui vengono impiegati in prevalenza, per la realizzazione delle tessere, materiali vetrosi, ori, argenti, ed anche madreperle, in modo da impreziosire l’insieme ma anche per donargli particolari riflessi luministici che possano suggestionare il fruitore.